Afleveringen
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Tra Meridiani e Paralleli.... incontriamo il musicista Claudio Lugo mentre ci propone suggestioni ed elementi per comprendere meglio la natura dell'improvvisazione. Ascolto, incontro e asimmetrie necessarie da considerare per avvicinarsi alla musica del mondo e a tutto ciò che può rappresentare nell'esistenza di ogni persona. Grafiche di Giulia Coppola in tempo reale.
Claudio Lugo è cittadino genovese d’adozione dal 1966; nacque a Milano nel 1954 ma è per lo ius soli. Studia composizione e analisi del teatro musicale con Sylvano Bussotti. Nel frattempo si diploma in saxofono classico fingendo di non peccare in jazz. De trent’anni è professore di saxofono classico (incitando a peccare in jazz). Si interessa sin dai primi ’70 all’improvvisazione (poli-stilistica) individuale e collettiva e ai rapporti tra le prassi estemporanee e la scrittura musicale. In conservatorio tiene corsi di teoria e tecnica dell’improvvisazione e di semiografia della musica per il canto. È “trainer” per le pratiche del “dialogo sonoro” in musicoterapia. Negli ultimi anni torna a vestire i panni di studente, seguendo corsi universitari e seminari di antropologia. È appassionato di escursionismo ma non rampica. Simpatizza con Ganesha, protettore (tra altri innumerevoli compiti) di musici, educatori e viaggiatori. Il suo Arcano è un morphing tra l’Eremita e il Matto. Dietro i fornelli è forte nei risotti.
Caro Claudio, non è facile intercettarti, ultimamente. Posso dire che si sente la mancanza di un sassofonista e di un compositore della tua levatura nel nostro panorama musicale senza che la cosa “suoni” troppo fastidiosa?
Claudio Lugo: D’acchito, se non suonasse inopportunamente “carmel-benista”, risponderei: “Sono apparso altrove!”; ma è pur vero. Nei due decenni passati mi sono dedicato intensamente alla didattica. Ho maturato progressivamente l’idea che il ruolo dell’insegnante – di musica o d’altro – sia il più sensato in tempi di estrema crisi culturale, sociale e politica dell’Occidente moderno. Mark Fisher, Bifo e altri autori parlano di “lenta cancellazione del futuro”, descrivendola come patologia tipica del regime di “capitalismo reale” che succede alla fase post-moderna; l’atto della docenza, nella sua dedizione quotidiana, capillare, resiliente e nascosta per sua stessa natura, penso possa avere ancora una qualche funzionalità nella (ri)costruzione di un “futuro” che appare latitante. Tra l’altro mi ha colpito come David Greaber, altro autore per me di riferimento, nel suo recente “Bullshit jobs”, elencando le occupazioni sicuramente “bullshit –free” – vale a dire professioni che, tra tanti “lavori-di-merda”, i professanti hanno ancora il privilegio di percepire come certamente utili alla comunità – nomini il lavoro di “music teacher” collocandolo diverse posizioni avanti a quello di “musician/performer”. Da una decina d’anni, poi, ci sono i viaggi/field-performance: “sonar per gli elfi”, dei quali so che mi vuoi chiedere poi e quindi non spoilerizzo. Ad ogni modo, anticipando qualcosa, amo pensare che nel milieu elfico – “panorama musicale”, come lo chiami – sono presenza nota e gradita.
In breve; a discenti e forme eso-umane sono apparso sin troppo!
Sono affascinato dalla tua perizia sassofonistica che si è sempre espressa in contesti più vicini alla sperimentazione e alla contemporanea. Il tuo suono e il tuo fraseggio, però, mi rimandano a certi grandi virtuosi della grande tradizione del jazz. Sei d’accordo?
Non so davvero se ho un “mio” suono, un “mio” fraseggio. In genere questi aspetti stilistici sono considerati rilevanti quando hanno crisma di originalità e di riconoscibilità. Ho l’impressione per converso d’essere sostanzialmente un “muta-forma”. Generalmente in fase di apprendistato si ha la tendenza, direi fisiologica – e perfettamente consona alla tradizione di ogni percorso di apprendimento – a “imitare” questo o quel maestro di riferimento passando attraverso varie “crisi” di crescita. Di solito in fase matura tutto ciò tende a stabilizzarsi, a connotarsi in una identità sonora; si diventa “solidi”, per rimanere nella metafora “startrekista”. Personalmente cerco ancora una postura fluida, provvisoria, sembrandomi il “crossdressing” stilistico il dispositivo più idoneo a perseguire l’interazione viva nei disparati habitat musicali che mi capita di attraversare.
Cerco sempre di esercitare in primis l’adattabilità rispetto all’espressione di una, vera o presunta, originalità. Mi affascina il concetto di “disponibilità” che François Jullien individua come categoria etica e cognitiva del pensiero cinese contrapponendola al “nostro” “libertà”, termine che in Occidente è misurato per lo più sul metro del canone individualista. Nella disponibilità il soggetto rinunzia ad (im)porsi con un proprio rilievo (pensarsi concavo anziché convesso) dis-ponendosi alle opportunità dispiegate dalla relazione col contesto, senza posture preordinate. Così vorrei per il suono e il fraseggio. Muta-forma, muta-suono, quindi. A volte “jazzy”, a volte “noisy”, a volte “classy”, a volte “cheap”, a volte “boh”…
Per quanto riguarda i tuoi apprezzamenti, che ovviamente accolgo lusingato, mi piace citare l’amico e grande maestro Gianni Gebbia che una volta mi disse: “Finirai per scrivere poesie in miniatura sulle ance per poi distribuirle passando tra il pubblico in sala”. In fondo il più bel complimento lo ha ricevuto il mio “non-suono”!
Per molti anni hai intrapreso dei “viaggi sonori” in solitaria, visitando ed esplorando varie zone del mondo, luoghi da sonorizzare col la tua voce strumentale. Come prosegue questa personalissima e affascinante esperienza?
“Sonar per gli elfi” – intendendo col termine di “elfi”, per estensione, gli spiriti viventi degli elementi naturali declinati in innumerevoli forme da innumerevoli tradizioni culturali – fu in avvio una iniziativa pensata come pura ricerca personale sulle possibili mutazioni nell’atto dell’improvvisare immersi in differenti contesti naturali reconditi e, d’altra parte, come puro piacere dell’appassionato escursionista nell’esplorare alcune aree residuali ancora relativamente estranee al processo dell’antropizzazione pervasiva.
Lo strumento che suono è stato messo a punto a metà dell’Ottocento da Adolphe Sax in due famiglie, per l’orchestra sinfonica e per la banda (“orchestre d’harmonie”), versione quest’ultima che ebbe un impiego decisamente più diffuso per via dell’innegabile efficacia dei saxofoni nelle performance all’aria aperta. Volevo “tornare” a sentire il suono in quella dimensione “open-air” per la quale lo strumento era stato creato, e se possibile misurare le modulazioni timbriche nei differenti spazi naturali.
Intervista completa di Francesco Cusa su "The new noise" - https://www.thenewnoise.it/claudio-lugo-sassofoni-meridiani-e-paralleli/ -
Intanto....incontriamo Paolo Jedlowski che parla con noi del suo ultimo libro e dei tanti racconti che proprio in questo momento possono prendere vita. Una conversazione piena di riverberi, colore e calore. Grafiche realizzate in tempo reale da Giulia Coppola.
Paolo Jedlowski (Milano, 1952) si è laureato in Filosofia all’Università Statale di Milano. Vive ad Arcavacata nei pressi dell’Università della Calabria, dove è professore ordinario di Sociologia. E’ stato research fellow alla Boston University, ha insegnato all’Università di Napoli “L’Orientale” e all’Università della Svizzera Italiana a Lugano. Si occupa di storia della sociologia, di teoria sociale e di sociologia della cultura. E’ stato vice-Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia. All’Università della Calabria ha fondato e dirige Ossidiana, Osservatorio sui processi culturali e la vita quotidiana, e coordina il Dottorato in Politica, Cultura e Sviluppo.
E’ autore di diversi volumi sulla memoria collettiva e sull’esperienza nella contemporaneità. Oltre all’edizione italiana di alcuni classici della sociologia, ha curato un dizionario delle scienze sociali e ha pubblicato due manuali di storia del pensiero sociologico. Un suo profilo autobiografico è compreso nel volume The Disobedient Generation, a cura di Alan Sica e Stephen Turner (University of Chicago Press, 2005).
Tra i suoi libri: Memoria, esperienza e modernità (Franco Angeli 1989 e 2002); Il sapere dell'esperienza (Il Saggiatore 1994, Carocci 2008); Il mondo in questione. Introduzione alla storia del pensiero sociologico (Carocci 1998 e 2009); Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana (Bruno Mondadori 2000); Un giorno dopo l’altro. La vita quotidiana fra esperienza e routine (Il Mulino, 2005); Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa (Bollati Boringhieri, 2009), Memorie del futuro (Carocci 2017); Intanto (Mesogea 2020).
Per il teatro ha scritto Smemoraz. Un monologo didattico, messo in scena dal teatro dell’Angolo di Torino. -
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