Afleveringen

  • Questo è un episodio importante per me, perché un anno fa è uscito il primo episodio di questo podcast. Per festeggiare l'anniversario ho deciso di presentare un libro che considero molto speciale, commovente e pieno di spunti di riflessione. Per questo motivo oggi non affronto un solo argomento, ma diversi, in parte già trattati in precedenza, ma pur sempre importanti e utili da ricordare, in parte nuovi, eventualmente da approfondire nei prossimi episodi. Tra i temi toccati ci sono: i modelli di riferimento che ci scegliamo, la capacità di ascoltare,l’accettazione e il non attaccamento, la gratitudine, lo spirito di sacrificio,l’identificazione con le etichette che ci vengono affibbiate e il ritrovare noistessi…

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  • EPISODIO 36. IN EQUILIBRIO TRA TROPPO E NIENTE

    Mi sono chiesta quali siano le principali condizioni di vita che fanno sentire le persone appagate o, al contrario, cosa manchi a chi invece non è soddisfatto. Mi sono venuti in mente tre tipi di ricchezza:

    1. Quella che si quantifica con il patrimonio personale e il conto in banca;

    2. Quella di chi, come sig. Pieno, ha una vita piena di impegni e obiettivi: lavoro, famiglia, progetti, viaggi, amicizie, sport, passatempi di tutti i tipi, quindi anche cultura, idee, sensazioni, novità…. Tutto. Ogni giorno è un’occasione per vivere pieni di stimoli e senza freni;

    3. La ricchezza di chi, come sig. Vuoto, sente di bastare a se stesso, cerca di non possedere niente di materiale e di non prendersi responsabilità a lungo termine che lo vincolino e lo imbriglino in pensieri scomodi e preoccupazioni inutili. Oppure cerca di non legarsi a nessuno, pensando che senza relazioni stabili sarà più libero di vivere la vita a modo suo.

    Gli antichi ci hanno insegnato che “in medio stat virtus”. Quindi probabilmente la vera ricchezza interiore si raggiunge proprio quando si trova un equilibrio tra le ultime due condizioni, affinché il tanto non diventi troppo e la leggerezza non venga sostituita dalla superficialità.

    Uso la parola equilibrio non come sinonimo di stabilità e saldezza, ma di armonia e di bilanciamento tra interno ed esterno: un equilibrio dinamico e fluttuante, un continuo adattamento di forze per mantenere la connessione tra dentro e fuori, senza scivolare verso l’uno o l’altro estremo. A metà tra la polarità del pieno e la polarità delvuoto c’è la consapevolezza: come raggiungere l’equilibrio interiore dipende solo da noi, da quanto impegno e costanza mettiamo nell’allenare la nostra consapevolezza per riuscire a stare bene con noi stessi in ogni circostanza,attraverso la gratitudine, il non attaccamento, la positività e la scelta di obiettivi in linea con noi stessi…

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  • Zijn er afleveringen die ontbreken?

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  • Siamo abituati a classificare le emozioni come positive e negative, a seconda di come ci fanno sentire e delle reazioni che ci provocano. Questa distinzione però non ci porta a considerareche ogni emozione è utile perché tutte hanno un ruolo e un messaggio da darci, soprattutto quelle che ci creano disagio e dalle quali, tendenzialmente, cerchiamo di fuggire.

    Qualsiasi sia il motivo individuale per cui vengono represse e non espresse, loro ci sono e noi abbiamo il dovere di considerarle edi imparare a gestirle: prima di tutto per noi stessi e per il nostroequilibrio psicologico; in secondo luogo, perché il modo in cui ci percepiamo e in cui affrontiamo le situazioni influenza tantissimo i rapporti interpersonali e quindi il benessere nostro e di chi ha a che fare con noi. È fondamentale imparare a riconoscere le proprie emozioni e quindi a gestirle per poterle poi esternare in modo funzionale, evitando scontri, fraintendimenti e ferite emotive. Infatti, se si riesce a comunicare con equilibrio erispetto i propri stati d’animo provocati da determinate dinamiche che coinvolgono anche un’altra persona, o più di una, si può instaurare con l’altro un dialogo costruttivo, un confronto che possa portare alla comprensione reciproca e al superamento delle difficoltà.

    Inoltre, riuscendo a gestire bene le nostre emozioni, più facilmente riusciamo ad essere dei bravi allenatori emotivi per inostri bambini.

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  • “Fai sempre in modo che la tua casa sia piccola e leggera da portare” è l’insegnamento del racconto di oggi: togliere il superfluo, che ci rende schiavi del giudizio altrui o della pauradi non avere abbastanza. Non solo, quindi, evitare di accumulare oggetti materiali con l’illusione che questi possano compensare un’insoddisfazione interiore, ma evitare anche tutti quegli atteggiamenti e quei pensieri che non ci fanno vivere in linea con le nostre potenzialità. Accettarci per come siamo significa renderci conto che andiamo già bene così e qualsiasi cambiamento decidiamo di fare in noi stessi dobbiamo farlo per la consapevolezza che possiamo migliorarci, non per il desiderio di farci vedere migliori agli occhi delle persone che ci circondano.

    Fare questo implica altre due cose: da un lato smettere di confrontarci con gli altri e di sentirci inferiori e contemporaneamente smettere di temere il giudizio degli altri; dall’altro riconoscere i nostri punti di forza e di debolezza e poi sfruttare i primi per esprimerci pienamente in linea con le nostre potenzialità e provare a superare i secondi, facendo in modo che non diventino una scusa per fermarci quando ci manca la motivazione per andare avanti nel nostro percorso individuale.

    Se agiamo sentendoci liberi di essere noi stessi, senza paura di non valere, sarà molto più semplice rimanere nei nostri panni e quindi sentirci a nostro agio nonostante i dubbi su noi stessi, il timore di non sapere come comportarci ecc.

    Casa non è un luogo, è uno stato d’animo.

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  • È importante distinguere e bilanciare quello che è urgente e quello che è importante, quello che porta a produrre e a possedere da quello che porta a sentire e ad essere, dando il giusto peso a entrambe gli aspetti. Spesso non è tanto facile mettere a fuoco i due concetti perché possono non essere del tutto distinti. Così diventa più difficile rimanere obiettivi. Quando il senso del dovere, l’abitudine e la razionalità prendono il sopravvento, ci fanno credere che ci sia un unico modo per affrontare le situazioni stressanti, ovvero non fermarsi mai, rendendoci nervosi e preoccupati e portandoci a sacrificare il tempo che vorremmo dedicare alla famiglia, agli affetti, alle attività che ci fanno stare bene, a noi stessi.

    Siamo abituati ad essere costantemente indaffarati, pieni di impegni con scadenze stabilite da qualcun altro, problemi da risolvere, affari da concludere, abilità da dimostrare prima che qualcun altro volga lo sguardo altrove… Così perdiamo di vista l’enorme paradosso che si nasconde dietro questa abitudine, cioè il fatto che troppo spesso abbiamo la sensazione di non avere tempo e contemporaneamente viviamo come se la nostra vita non dovesse finire mai. Facciamo di gran corsa tutto quello che percepiamo come urgente e rimandiamo costantemente quello che consideriamo importante, raccontandoci che lo faremo appena possibile, in un futuro non ben definito e neanche troppo prossimo…

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  • Sembra che le radici di un comportamento da bullo affondino in un disagio vissuto nel contesto familiare e, parallelamente, che l’ambiente in cui più frequentemente venga messo in atto questo tipo di comportamento sia la scuola.

    È anche vero che a qualsiasi età, quotidianamente, siamo tutti esposti a episodi di prevaricazione e prepotenza. Li respiriamo senza neanche accorgercene: sono immagini di aggressività che vengono fatte passare come “normalità” perché superano i confini dell’ambiente domestico privato e si diffondono in così tante sfere della quotidianità pubblica che non ci stupiscono più.

    Secondo gli psicologi, le due parole chiave per prevenire il bullismo sono assertività ed empatia, la quale implica il saper riconoscere e comprendere le emozioni dell’altro e quindi, prima, l’essere in grado di guardarsi dentro e riconoscere le proprie.

    Nell’episodio di oggi vengono presi come punti cardine questi tre aspetti (riconoscimento delle emozioni, assertività ed empatia) e vengono delineati gli elementi e i comportamenti a cui è utile prestare attenzione, sia per noi adulti che per i bambini e i ragazzi di cui siamo responsabili.

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  • Cosa ci porta a pensare e a dire di non poter cambiare un’abitudine consolidata che a volte ci fa fare o dire qualcosa che non ci piace? Cosa ci spinge a dare per scontato di essere fatti in un determinato modo, rigido e destinato a rimanere così nel tempo? Le cose stanno davvero così?

    Abbiamo il potere di cambiare qualsiasi vecchia abitudine che non ci corrisponda più e abbiamo la possibilità di dare un messaggio importante ai nostri bambini: si può crescere molto più serenamente imparando a vivere senza idee limitanti e sminuenti.

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  • In linea di massima siamo tutti abbastanza impulsivi e frettolosi nel parlare. Ci basta essere chiari, educati e gentili. Nessuno ci ha mai abituati a considerare le nostre parole come “creatrici” di qualcosa che poi resta anche a distanza di tanto tempo.

    Se feriamo o offendiamo una persona adulta, questa in linea di massima si rende conto che abbiamo urtato la sua sensibilità, se vuole ce lo può comunicare -se non ce ne accorgiamo da soli- e così possiamo avere con lei un confronto, possiamo chiarire, spiegare cosa intendevamo dire, al limite chiedere scusa… Mase il messaggio che diamo è diretto a un bambino o a un ragazzino ancora “disarmato” nella relazione con noi, che cosa andiamo a colpire? Con che intensità? E soprattutto con quali conseguenze per lo sviluppo della sua personalità? E se ci abituiamo a parlare male a noi stessi, cosa succede?

    “La parola può entrare nella mente e cambiare le nostre credenze in meglio o in peggio. […] Ogni volta che udiamo un’opinione e la crediamo vera, la rendiamo parte del nostro sistema di credenze” (Don Miguel Ruiz).

    Ormai è stato dimostrato che il linguaggio è in grado di agire sull’inconscio e sul pensiero influenzando i nostri stati d’animo, le nostre azioni e quindi la nostra quotidianità. Se parliamo bene a noi stessi, con parole positive e amorevoli invece che con critiche e giudizio, ci facciamo del bene e giorno dopo giorno miglioreremo la nostra percezione di noi stessi e i nostri statid’animo. Allo stesso modo, se parliamo agli altri con parole ponderate e positive, trasmetteremo positività anche a noi stessi perché le stesse parole che rivolgiamo agli altri risuonano anchedentro di noi. E infine rivolgere parole positive, incoraggianti e accoglienti ai bambini, invece di rimproverarli e di sottolineare gli aspetti che non ci vanno di loro o il disappunto che ci procurano, potrà -oltre che fare bene a noi stessi- anche insegnare ai bambini a rivolgersi a loro stessi in modo positivo. Li abituerà a fare pensieri edificanti verso loro stessi e quindi a crescere come individui più sereni e con più risorse.

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  • Perché sotto l’albero di Natale mettiamo sempre tantissimi regali per i nostri bambini? Qual è il regalo più bello che potremmo fare loro? Perchéci piace così tanto comprare tutto e che effetti ha questa abitudine sui nostri bambini? Far sentire amato un bambino non significa dirgli sempre sì. Anzi!

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  • L’allegria spesso è contagiosa e si trasmette persino quando lo stato d’animo iniziale di chi ne viene contagiato non è dei migliori: relazionarsi con qualcuno che è visibilmente allegro, “in modo vivace e rumoroso” come dice la definizione del dizionario, facilmente ci strappa un sorriso, come minimo, se non addiritturauna bella risata.

    Perché sorridere e divertirsi sono fattori che fanno stare bene?

    Prima di tutto perché, ce lo dice la scienza, sorridere libera serotonina ed endorfine e tutti i cosiddetti “ormoni del benessere”; in secondo luogo perché sorridere inviasegnali non solo al nostro organismo, ma anche a chi ci sta intorno, creando un clima di serenità e fiducia, a beneficio di tutti. Inoltre prendere la vita con umorismo aiuta ad affrontare molto meglio le sfide della quotidianità e a rimanere più recettivi a possibili soluzioni. Purtroppo è abitudine comune vivere gli aspetti “più seri” della vita con una certa preoccupazione eserietà. Ci è stato insegnato così, fa parte della nostra cultura. Come se affrontare la vita con umorismo significasse un po’ prendere in giro gli altri o sminuire le sofferenze prendendo tutto alla leggera. Invece dovremmo vedere la tendenza ad essere sempre allegri come la capacità di non farsi sopraffare dai pensieri negativi e di dare il giusto peso alle situazioni difficili.

    Portare un po’ di umorismo e di allegria nelle nostre vite non significa essere superficiali: significa piuttosto imparare a fare una battuta quando c’è tensione da stemperare, riuscire ad essere un po’ autoironici, riuscire a ridere di gusto anche se abbiamo problemi da risolvere o pensieri scuri che ci rattristano. Se dovessimo aspettare di risolvere tutti i nostri problemi prima di poter vivere con allegria, non arriveremmo mai a quel momento…

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  • È un dato di fatto che nel periodo dell’adolescenza i ragazzi sembrano distanti dai genitori e dalla vita familiare, tendono ad avere sbalzi di umore, a rispondere a monosillabi, a dare risposte secche, spesso insolenti e irrispettose, o a non rispondere proprio… e solo poche volte danno dimostrazioni d’affetto verso i genitori. Le regole non piacciono agli adolescenti, perché li fannosentire dipendenti e limitati. Vengono percepite come imposte e spesso inutili o poco chiare. Per questo trasgrediscono. Eppure ne hanno bisogno, per sentirsi stabili, sostenuti, guidati e incoraggiati. Quindi spesso i ragazzi hanno atteggiamenti contrastanti, che spiazzano l’adulto, il quale si trova a dover essere particolarmente flessibile, facendo lo slalom tra richieste di autonomia e bisogno di protezione, tra la necessità di essere accogliente e comprensivo e quella di mollare la presa per consentire al figlio di fare le proprie esperienze… Allo stesso modo, quando i figli diventano silenziosi, si chiudono in camera per ore e ne escono solo quando sono affamati, non raccontano più niente di loro ai genitori e non si entusiasmano più all’idea difare qualcosa con loro… Succede perché i due mondi, quello dei genitori e quello dei figli, non sono più allineati: le aspettative reciproche non corrispondono più. I genitori continuano a dare la priorità alla scuola, alla collaborazione in casa, all’obbedienza e alla coerenza con gli impegni presi, mentre i figli ormai trovano noiose queste cose e danno la priorità al gruppo di amici, al divertimento, al corpo e all’aspetto esteriore, ai social… Così igenitori non riconoscono più i figli e i figli non si sentono più capiti, ma piuttosto giudicati. Di solito a questo punto i genitori le provano un po’ tutte per rientrare in sintonia con loro, ma si trovano a dover imparare daccapo a fare i genitori: devono imparare a modulare costantemente la distanza tra loro, ad essere per loro un punto fermo senza diventare un freno alla loro libertà, ad essere presenti ma non pressanti, amorevoli ma decisi, fermi ma non intransigenti, pazienti ma non arrendevoli… niente di nuovo, dovevano essere così anche quando i figli erano bambini, ma questa volta si rapportano con dei ragazzi che mettono costantemente in discussione la loro autorità e la loro capacità di guidarli… Come fare?

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  • La pazienza è il frutto di tante qualità importanti come la consapevolezza, la speranza, la maturità, l’equilibrio, la gestione dell’ansia, la forza di volontà… E’ la capacità di non reagire di fronte alle avversità che ci creano frustrazione, mapiuttosto di agire mantenendo un atteggiamento riflessivo, perseverante, calmo e coraggioso. Pazienza e saggezza si nutrono a vicenda, perché la prima implica un’attesa attiva che favorisce l’autoriflessione e quindi ci offre la possibilità di ascoltarci e scoprirci, di vedere la situazione con occhi diversi, di migliorare e crescere; la seconda è il risultato di tutte quelle qualità cui accennavo prima, che ci permettono di non essere impulsivi, di fare scelte in linea con il nostro modo di essere, che implicano consapevolezza, tolleranza e persino intuizione. Ecco perché ècosì facile perdere la pazienza vivendo in modo frenetico: la pazienza viene percepita come un difetto piuttosto che una virtù, come se “avere pazienza” fosse sinonimo di “perdere tempo”, mentre richiede il riconoscimento di un tempo dilatato a cui non siamo abituati. La pazienza richiede lentezza.

    Solo con la pazienza si può aspettare che i tempi siano maturi per il raggiungimento di un obiettivo, a volte prima ancora di aver messo a fuoco l’obiettivo stesso: frequentare una persona in funzione di un’eventuale relazione di coppia, studiare per superare un esame importante, dimostrare le proprie capacità e qualità in ambito lavorativo, conquistare o recuperare la fiducia di una persona, allenarsi per vincere una gara sportiva, educare i propri figli e insegnare loro a sentirsi a proprio agio nel mondo… Qualsiasi obiettivo importante implica pazienza e lentezza. Implica saper aspettare il momento giusto, affrontando incertezze e paure, ansia e intolleranza, senso di impotenza e frustrazione.

    Siamo abituati ad agire in modo da ricevere subito quello che vogliamo o, al contrario, da far cessare immediatamente qualcosa che non vogliamo. Così non ci passa neanche per la testa che c’è un tempo giusto per ogni cosa. Pensiamo di poter decidere noi quando far succedere le cose, ma non è così. Ce lo insegna la natura che ogni cosa ha il suo ritmo di crescita e di evoluzione. Ce lo insegnano i fatti della vita. Quando cerchiamo di adattare il ritmo della vita al ritmo che vorremmo noi, di solito finisce che ci facciamo travolgere e in qualche modo ci facciamo male. Se hai curiosità, dubbi o domande, non esitare a contattarmi scrivendomi una mail a [email protected]

  • Spesso si sentono adulti che esortano i bambini a salutare, a chiedere per favore, a ringraziare… Adulti che cercano di insegnare ai piccoli la buona educazione, le regole di base per instaurare relazioni sociali soddisfacenti… Quello a cui forse spesso non si pensa, in queste occasioni, è che la buona educazione (che si fonda su regole razionali socialmente condivise), se mescolata a un po’ di generosità e di calore (chesono invece prerogative del cuore), diventa qualcosa di potente: diventa gentilezza.

    La gentilezza è un atto di connessione umana. A 360°. Infatti ormai è stato ripetutamente dichiarato, da studiosi che hanno condotto diversi tipi di esperimenti scientifici, che gli atti di gentilezza fanno bene non solo a chi li riceve ma anche a chi li compie, perché essere gentili può stimolare il rilascio di serotonina e ossitocina, neurotrasmettitori che riducono ansia estress. Sostanzialmente ritengono che la spinta ad essere gentili nasca da un impulso biologico e che poi i modelli educativi che si ricevono facciano il resto. Come se non bastasse, esperimenti di fisica quantistica sui fotoni e altre ricerche di medicina sul DNA hanno dimostrato scientificamente che esiste una connessione energetica fra tutto e tutti. Essere gentili, in sintesi, abbassa il nostro livello di stress e nervosismo, aumentando le occasioni per sorridere e stare bene; riduce l’aggressività di chi si sta innervosendo con noi facendogli cambiare atteggiamento perché riceve uno stimolo completamente diverso da quello che si aspettava; migliora le relazioni sociali in tutti i settori, compreso quello lavorativo. Aggiungerei che se venisse trasmessa e insegnata più spesso ai ragazzi, si eviterebbero tante situazioni di bullismo da un lato, e di disistima dall’altro.

    Nell’episodio di oggi vediamo come allenarci ad essere gentili e come insegnare questo valore ai nostri bambini.

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  • Il senso di colpa scaturisce dal non riuscire a perdonare noi stessi… Si può manifestare in diversi modi: dal rimuginare incessantemente sulle azioni commesse, al rimorso e all’auto-rimprovero, fino ai casi più gravi di auto-punizione.

    In generale, il senso di colpa nasce quando viviamo un disallineamento tra il nostro comportamento e quello che invece riteniamo essere il comportamento giusto da adottare, in base al nostro senso morale e valoriale e al contesto sociale e culturale in cui viviamo e con il quale condividiamo il concetto che alcune azioni sono giuste mentre altre sono sbagliate e punibili. Renderci conto di esserci comportati male, cogliere l’eventuale malessere che possiamo aver provocato in un’altra persona e dispiacerci per questo è qualcosa di positivo e utile che permette di assumersi le proprie responsabilità e di adottare comportamenti adattivi.

    Il problema nasce quando questi nostri comportamenti ci fanno sentire in difetto per un periodo che si protrae a lungo nel tempo e non riusciamo ad accettare di aver sbagliato o di non aver fatto quello che sentivamo di dover fare. Quando non riusciamo a perdonarci, il nostro stato d’animo può generare emozioni aggiuntive come la tristezza, la rabbia, la paura, il rimorso…, che spesso provocano persino malessere fisico. Allora nascono i mal di testa, i dolori allo stomaco, l’ansia con tutte le sue manifestazioni di respiro corto,disturbi del sonno, tensioni muscolari…

    Quando invece riusciamo a guardare con obiettività il nostro errore, ci guadagniamo l’opportunità di capire cosa ci ha condotto a sbagliare, in che modo le nostre convinzioni o le nostre paure ci hanno manipolato. Di conseguenza possiamo, da un lato, non commettere più la stessa azione e, dall’altro, smettere di biasimarci. Il che corrisponde a PERDONARCI e, in generale, ad amarci un po’ di più.

    Nell’episodio parlo di cosa possiamo fare per smettere di sentirci in colpa ed evitare di far nascere i sensi di colpa nei nostri bambini.

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  • Nessuno di noi vorrebbe mai far del male a qualcuno che ama. Non consapevolmente almeno. Eppure ci riusciamo.

    La cosa peggiore è che più la vittima del nostro atteggiamento ci è vicina, più profondamente la feriamo e quella stessa ferita fa male anche a noi che l’abbiamo inferta, seppure senza volerlo.

    Qualsiasi sia la forma che assume l’esperienza dolorosa, qualsiasi sia la natura del rapporto che intercorre tra chi ferisce e chi viene ferito, l’effetto è sempre quello di un tradimento. Fisico o morale che sia, che vengano traditi i sentimenti dell’altra persona o gli accordi presi con lei, che venga calpestato un valore in cui crede, la sua morale, la sua sensibilità, le sue aspettative… è un tradimento che fa male. Sentire tradita la fiducia che si è riposta in qualcun altro fa male. Quando succede, per evitare conseguenze spiacevoli bisogna trovare la forza di fare un passo in avanti e impegnarsi entrambi per curare la ferita e ridurre la distanza che si è venuta a creare: in particolare la persona ferita dovrà riuscire a perdonare, se vuole davvero andare oltre. Fare pace razionalmente non basta. Perdonare significa andare oltre la comprensione delle cause che hanno scaturito il comportamento incriminato, oltre la capacità di riconoscere e gestire la propria rabbia o delusione. Significa fare un atto volontario di accettazione totale e amorevole dell’altro, riconoscere il valore intrinseco della persona e, in nome di quel valore, decidere di dare più peso a lei che alle parole o alle azioni che hanno provocato il disgusto e il senso di impotenza e incredulità in chi si sente ferito. Il perdono è un atto di coraggio e di forza, non di debolezza: per perdonare bisogna mettere da parte l’orgoglio e la delusione, fare leva su tutta la propria capacità di vedere le cose con lucidità, avere la forza di mettere sulla bilancia il dolore che si sente e il valore che si riconosce all’altra persona e al rapporto che si ha con lei. Tutto questo senza giudizio, con pazienza e dedizione. È difficile perdonare, ma vale sempre la pena di farlo, soprattutto se riconosciamo il valore della persona coinvolta, ma anche solo per noi stessi, per trasformare in fiori profumati le spine della delusione, del risentimento, della rabbia e di tutto quello che può rimanere nascosto nelle pieghe del nostro cuore, continuando a pungerci nel tempo.

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  • Cosa significa essere se stessi? Lo siamo sempre?

    Alcune persone non riescono ad esprimere la loro vera natura: non sanno cosa preferiscono, cosa vogliono… è come se galleggiassero in un limbo senza riuscire mai a prendere una decisione o a schierarsi da una parte piuttosto che dall’altra, aspettano di capire cosa stia succedendo intorno a loro o cosa si aspettino gli altri da loro e solo dopo agiscono, adeguandosi ai messaggi che ricevono senza rendersi conto che non necessariamente corrispondono a qualcosa che vorrebbero per loro stesse. Spesso per mancanza di abitudine ad ascoltarsi e per bassa autostima.

    Il problema di rimanere fedeli alla propria natura emerge in maniera più evidente e con maggiore frequenza all’interno delle relazioni sociali, dove ci si sente esposti al rischio di essere rifiutati o addirittura, al contrario, si teme di essere presi davveroin considerazione, sentendosi un riflettore puntato addosso laddove durante il proprio percorso di vita non ci si sia sentiti abbastanza visti e riconosciuti.

    Perché succede? Come si manifesta il problema nei bambini, nei ragazzi e negli adulti? E cosa possiamo fare persmettere di nasconderci o per insegnare ai nostri figli ad avere più fiducia in loro stessi, senza dipendere dal bisogno di compiacere gli altri? Ne parlo nell'episodio di oggi.

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  • Conoscete qualcuno che alla domanda “Come stai?” comincia ad elencarvi tutte le sue sfortune e quanto la vita gli remi contro? Qualcuno che, abitualmente o solo in determinatecircostanze, vi spieghi per filo e per segno quanto si senta impotente rispetto a quello che gli succede e dia sempre la colpa alle condizioni esterne o alle altre persone?

    Se siete di fronte a una persona bloccata nella convinzione che non ci sia niente da fare per poter stare meglio, che ogni tentativo di risolvere una situazione sia un inutile spreco dienergia, se non alza un dito per provare ad uscire dalla condizione che la fa sentire oppressa e nel frattempo si lamenta in continuazione, …allora con buona probabilità siete di fronte a una persona che si sta autocommiserando.

    L’atteggiamento vittimistico fa sentire quella persona sollevata da ogni responsabilità, la fa sentire vittima impotente, giustificata e messa al riparo dai giudizi e dalle critiche.

    Il che è molto diverso dal riconoscere e accettare i propri limiti o i limiti imposti dalla situazione esterna: non si tratta di accettarsi e di adattarsi con consapevolezza quello che la vita ci porta.

    Si tratta piuttosto di autocommiserazione: un tentativo mascherato di richiedere attenzioni, sollecitando gli altri a darci comprensione, conforto e sostegno. Si finisce con l’appoggiarsi agli altri per l’inconsapevole desiderio di sentirsi protetti eaiutati. Quindi, paradossalmente, l’autocommiserazione nasce anche da un tentativo di perseguire il proprio benessere, ma è una strategia disfunzionale ed egoistica…

    È molto più produttiva e funzionale invece la strategia di guardare le situazioni da una prospettiva nuova!

    Persino i bambini possono autocommiserarsi (ovviamente lo fanno in modo diverso dagli adulti) e noi possiamo aiutarli ad essere coraggiosi nell’affrontare situazioni che li fannosentire bloccati, evitando che rimangano fermi nella convinzione che forse è meglio non provarci neanche. Nell’episodio di oggi vediamo come.

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  • Siamo abituati a riempirci ogni attimo della giornata con attività di tutti i tipi e i momenti in cui siamo costretti a fermarci ad aspettare qualcosa o qualcuno ci sembrano una perdita di tempo.

    La conseguenza più diffusa e tangibile è il notevole livello di stress eansia in cui ci troviamo più o meno tutti e che manifestiamo in modi diversi. Ci nutriamo ogni giorno di frenesia, ansia, stress, con tutto quello che ne consegue: stanchezza, insoddisfazione, disturbi del sonno, disturbi alimentari, ricerca di eccessi per appagare qualche desiderio che neanche riusciamo a riconoscere, tanto è costante e subdola l’insoddisfazione che percepiamo…

    Quanto sarebbe bello riuscire a dedicarsi a un’attività alla volta,riconoscere e ascoltare un pensiero alla volta? Ci permetterebbe di fare tutto con maggiore consapevolezza e lucidità, più lentamente forse, ma con maggiore concentrazione e serenità. E tutto acquisterebbe più sapore, più forza o più dolcezza, più intensità e più profondità. Dentro di noi saremmo calmi e in pace, per il semplice fatto che chiederemmo a noi stessi di fare le cose nello stesso modo in cui siamo programmati per farle. Una alla volta.

    Eppure la prima reazione alla lentezza di un flemmatico è spesso diimpazienza. Anche nel caso di un bambino, per cui facilmente l’adulto sisostituisce a lui nello svolgimento del compito, perché lasciarlo agire con il suo ritmo sembra una frustrante perdita di tempo. Invece i bambini hanno i loro tempi per crescere, il loro ritmo, che non è quello frenetico a cui siamo abituati noi adulti e in cui trasciniamo anche loro.

    Per il bene nostro e dei nostri bambini, possiamo imparare a gestire lafrenesia che caratterizza la nostra quotidianità. Possiamo imparare arallentare. In tanti modi…

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  • Esistono una fame fisica e una emotiva: quella fisica, una volta riempito lo stomaco, lascia il posto al senso di sazietà; quella emotiva, invece, richiede di essere soddisfatta immediatamente, porta a non sentirsi mai sazi e di solito, una volta assecondata, porta a vivere un senso di colpa e di inadeguatezza. A volte persino di vergogna.

    Ci sono tanti tipi di comportamenti disfunzionali che si basano sulla relazione tra il cibo e la regolazione dell’umore. Perché ci viene voglia di mangiare anche se non siamo spinti dalla fame? Perché ci accorgiamoche potevamo evitarlo solo dopo che abbiamo finito di mangiare quel qualcosa di troppo? O peggio ancora, a volte se ne ha la consapevolezza anche mentre sta succedendo, ma proprio non si riesce a fermarsi…

    Si parla di fame emotiva, o fame nervosa, perché nasce da emozioni che ci portano a cercare una forma di consolazione, qualcosa che riempia immediatamente il vuoto che sentiamo o che ci dia l’impressione di cancellare il disagio che proviamo. Così utilizziamo il cibo per tenere sotto controllo le emozioni, nel tentativo di ridurne l’intensità o di non sentirle proprio. A cosa mandiamo incontro i nostri bambini se diamo loro questo esempio e se adottiamo con loro metodi educativi, sia punitivi sia di gratificazione, legati al cibo?

    Purtroppo la ricerca di cibo come reazione del bambino ad un malessere che percepisce ma non riconosce, è un atteggiamento che viene spesso assecondato e alimentato dai genitori e ancora di più dai nonni.

    Nell’episodio di oggi vediamo quali strategie si possono adottare per reagire all’abitudine della fame emotiva.

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  • Felicità e serenità sono considerati concetti opposti a quelli di dolore e sofferenza. L’episodio di oggi vuole mettere in risalto come i due argomenti siano due facce della stessa medaglia e il filo conduttore che li accomuna siano i desideri e le aspettative. Neanche ci accorgiamo di quanto facilmente siamo orientati a cambiare il mondo intorno a noi, invece di lavorare in noi stessi. Ce la prendiamo con gli altri perché non si comportano come ci aspettiamo o come ci sembra giusto; ci indispettiamo con la vita perché non ci porta quello che vogliamo, quello che secondo noi ci meritiamo…

    Abbiamo convinzioni, abitudini, pregiudizi, progetti, esigenze che ci portano a dare per scontato che le cose debbano andare secondo le nostre aspettative. Desideriamo che le cose vadano come vogliamo noi. Non ci rendiamo conto chel’insoddisfazione che sentiamo dentro nasce dal desiderio che la vita sia diversa da come la stiamo vivendo.

    Dovremmo chiederci quanto i nostri desideri, la nostra sete di possedere ed essere ciò che vogliamo e le nostre pretese ci siano di aiuto per migliorare noi stessi e dovremmo diventare coscienti del nostro modo di agire: riconoscendo che ogni comportamento non costruttivo e disarmonico, tutti i lamenti, le critiche e le manifestazioni di insoddisfazione, l’indecisione che spesso ci tiene fermi e una scarsa Volontà a prendere in mano la nostra vita, non ci permettono di ritornare in contatto con il tesoro che custodiamo dentro di noi e che ci dà forza, intuito, lucidità e quiete interiore.

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