Afleveringen
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Sono le 19.30 del 26 novembre 2010 quando a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, una ragazzina di 13 anni cammina sotto la neve. Sta tornando a casa dopo aver portato alla scuola di danza un registratore. Di lei quel pomeriggio si perderanno le tracce: scomparsa nel nulla. Nessuno la vede, nessuno la sente. Tre mesi più tardi il suo corpo verrà trovato in un campo lontano circa 12 chilometri dal luogo della scomparsa. Non ci sono dubbi che sia lei anche se il tempo, la neve, la pioggia e i roditori ne hanno brutalmente distrutto l'immagine. Come ci è finita lì, in quel campo, Yara? Le indagini coordinate dalla Procura di Bergamo saranno condotte dal Ris di Parma e dal colonnello Giampietro Lago, oggi a capo del Reparto delle investigazioni scientifiche dell'Arma dei carabinieri. Le verifiche e le ricostruzioni saranno lunghe e complesse ma attraverso una raccolta di tracce biologiche ed ematiche da parte di oltre 20 mila persone, che a titolo volontario si misero a disposizione per rintracciare l'assassino, si arriverà alla svolta. Sul corpicino di Yara il suo carnefice aveva lasciato delle tracce ma per mesi è rimasto solo "Ignoto 1". Fino a che, però, proprio grazie ad un confronto mastodontico e una ricerca sempre tesa al risultato si arriverà a fermare e ad arrestare Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all'ergastolo.
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Era una domenica, quel 12 settembre 1993, quando da Potenza, una giovane ragazza di appena 16 anni, Elisa Claps, scompare nel nulla. Il suo corpo verrà trovato 17 anni dopo nascosto nel sottotetto della chiesa Santissima Trinità nel capoluogo della Basilicata. Le ricerche e le indagini partirono a poche ore dalla scomparsa e nonostante gli anni, l'uomo considerato il suo assassino, Danilo Restivo, è stato condannato in via definitiva. Ma per ricostruire il caso fu necessario dissipare un porto di nebbie, sostituire periti e ripartire con le indagini da capo. Quando il corpo fu trovato, di esso non restava altro se non un cumulo di ossa e capelli. Anche i vestiti si erano quasi completamente deteriorati, e per analizzare le tracce sulla maglia che la ragazzina indossava quel giorno, il lavoro fu complicatissimo: toccare le fibre per gli investigatori significava restare con un pugno di polvere in mano. Ma il Ris di Parma, guidato oggi dal colonnello Giampietro Lago, riuscirono a trovare elementi sufficienti ad accusare Restivo della morte. Proprio Lago effettuò le indagini e ripercorre oggi un caso, tra i più noti e conosciuti d'Italia. Un mistero durato 17 anni che tuttavia sarebbe potuto essere risolto in pochissimo tempo.
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Zijn er afleveringen die ontbreken?
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A cinque giorni dalla scomparsa di Francesca Benetti, a Gavorrano, in provincia di Grosseto arrivarono i carabinieri del Ris di Roma. Era il 9 novembre 2013 e di quella donna, all'epoca 55enne, si erano perse le tracce da cinque giorni. Nessuno l'aveva più sentita dalla mattina del 4 novembre ma i militari del Nucleo Investigativo del comando provinciale di Grosseto iniziarono subito a sospettare - in base alla denuncia presentata dal compagno della donna - che nella scomparsa fosse coinvolto il fattore della tenuta Benetti, Antonio Bilella. Il suo coinvolgimento che porterà l'uomo ad essere condannato all'ergastolo verrà accertata anche dalle analisi e dalle verifiche del Ris di Roma. Questa è la seconda ed ultima puntata su un caso che sconvolse il grossetano: il corpo della Benetti non fu mai ritrovato. A raccontare oggi l'attività investigativa scientifica è il Maggiore Cesare Rapone, del Ris di Roma
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Francesca Benetti era un'insegnante di educazione fisica e quando scomparve nel nulla aveva 55 anni. Una donna di cultura, di bell'aspetto che dopo la scomparsa del marito si trasferì a Follonica dalla Lombardia. Aveva due figli, un nuovo compagno e una proprietà con 40 ettari di terreno ereditata in provincia di Grosseto. Da qui scomparve la mattina del 4 novembre 2013. Di lei non si è saputo più nulla né si è mai ritrovato il corpo. All'anagrafe di Follonica è ancora registrata come "persona scomparsa" ma un uomo, Antonio Bilella, di circa vent'anni più grande di lei è stato condannato in via definitiva all'ergastolo per il suo omicidio. In questo nuovo podcast di "Tracce" racconteremo con il Nucleo investigativo del comando provinciale di Grosseto quella misteriosa scomparsa e i protagonisti rimandando ad una nuova puntata le analisi compiute dal Ris di Roma in quella tenuta e non solo che servirono a suffragare l'impianto accusatorio dei confronti del Bilella, all'epoca custode della proprietà, che dopo essersi innamorato della donna e dopo esser stato rifiutato premeditò accuratamente il suo omicidio e l'occultamento del cadavere, tutt'oggi ricercato.
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E' passato alla storia come il delitto di Novi Ligure compiuto da due adolescenti, Erika De Nardo e Mauro Favaro detto Omar, che in una sera d'inverno - era il 21 febbraio 2001 - uccisero barbaramente la madre e il fratellino di lei. C'è un numero a sintesi dell'efferatezza mostrata dalla giovane coppia di fidanzatini: è il numero 97. Tante le coltellate che complessivamente furono inferte alle vittime. da allora sono passati 21 anni, via Don Beniamino Dacatra non si chiama più così, il suo nome oggi è via Caduti di Nassirya come se in un certo qual modo si sia voluto - o anche solo provato - a cancellare il ricordo di quella strage. Una strage, come ripercorre oggi il colonnello Giampietro Lago a capo del Ris di Parma, il reparto delle investigazioni scientifiche dell'Arma dei Carabinieri, maturata all'interno di un contesto sociale apparentemente “sano” e probabilmente proprio per questo difficile da spiegare. Dirimenti all'epoca furono le indagini del Ris sulla scena del crimine che per la prima volta, nella storia delle investigazioni scientifiche, adottò una particolare tecnica di analisi per accertare le singole responsabilità dei due fidanzatini durante quella feroce mattanza.
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Roma, quartiere Prati: il delitto dell'orafo Giancarlo Nocchia. Il pomeriggio del 15 luglio 2015 il gioielliere Giancarlo Nocchia, 70 anni, era nel suo laboratorio in via dei Gracchi. Stava sistemando dei conti e dei preziosi quando quello che sembrava un cliente bussò alla porta. L'orafo aprì ma dopo pochi minuti fu barbaramente aggredito e colpito alla testa con un oggetto che non fu mai trovato. Una violenza feroce che non gli lasciò scampo. Quel presunto cliente era un rapinatore, Ludovico Caiazza, 33enne all'epoca dei fatti, che già vantava un corposo curriculum criminale. Dopo l'aggressione il Caiazza fuggì con la refurtiva: bracciali, orecchini, collane per un valore complessivo di 200 mila euro. Il rapinatore, tuttavia, compì dei "passi falsi" disseminando le sue impronte sulla vetrina all'ingresso del negozio. Grazie a quelle tracce, esaminate dalla sezione impronte del Ris di Roma, i carabinieri del comando provinciale riuscirono a fermare e ad arrestare l'uomo appena tre giorni più tardi. Caiazza però non fu mai processato poiché si tolse la vita in carcere. A ripercorrere quel delitto, che sconvolse un intero quartiere della Capitale, è oggi il tenente colonnello Giampaolo Iuliano, comandante della sezione impronte del Ris di Roma
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E' il pomeriggio del 4 agosto 1989 quando Giuseppe Carretta, contabile di una nota società di Parma, varca la soglia del magazzino per prendere alcune scatolette di tonno per la cena. La sua famiglia è pronta a partire per le vacanze estive ma il figlio più grande, Ferdinando, gli spara uccidendo poi anche la madre e il fratello più piccolo. Il carnefice, all'epoca ventisettenne, metterà i corpi dei suoi familiari nella vasca da bagno per pulirli, provando poi a seppellirli tra gli argini del fiume. Non ci riuscirà poiché verrà disturbato da una coppietta che si era appartata in auto. Così cambierà piano e abbandonerà i corpi dei suoi genitori e del fratello minore in discarica: i loro resti non verranno mai ritrovati. Ferdinando Carretta si dà alla fuga e per un decennio vivrà nel Regno Unito fino a quando verrà arrestato, dopo un controllo, e una confessione spontanea resa alla stampa che riaprirà il caso. Ed è così che i militari del Ris di Parma, il reparto delle investigazioni scientifiche dell'Arma dei Carabinieri, torneranno in quell'appartamento degli orrori e smonteranno, pezzo dopo pezzo, il bagno per trovare le tracce utili ad avvalorare la confessione di Ferdinando Carretta. A ripercorrere il caso è oggi il Colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma.
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Quattro anni fa e il ricordo di un orrore che non tende a affievolirsi. E' ancora tutto lì: negli occhi e nella memoria di chi varcò la soglia di quel cancello arrugginito chiuso dai lucchetti nel cuore del quartiere San Lorenzo, a Roma, la notte del 18 ottobre 2018 scoprendo il cadavere di una 16enne lasciata morire dopo ripetuti abusi sessuali e un mix di droghe di cui non si ha traccia neanche in letteratura scientifica. "Un girone dantesco" dentro cui "nessun investigatore vorrebbe trovarsi" ricorda oggi la dottoressa Pamela Franconieri, a capo della IV sezione della Squadra Mobile di Roma, specializzata in reati sessuali. Desirée era un'adolescente con i suoi problemi e le sue paure. Era scappata di casa da Cisterna di Latina, una cittadina a 70 chilometri dalla Capitale, arrivando in via dei Lucani 22 dove, in un complesso edilizio abbandonato, ma protetto da alti muri e cancelli invalicabili, fiorente andava avanti da tempo un'attività di spaccio e consumo di stupefacenti. La sedicenne varca quel cancello e da lì non ne uscirà più. Con la dottoressa Franconieri si ripercorrono oggi le tappe di quel delitto, i dettagli e le tracce, le testimonianze che portarono poi gli agenti della Mobile ad arrestate quattro uomini che saranno processati e condannati per la morte della ragazzina.
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Diciassette omicidi e un tentato omicidio "collezionati" nell'arco di pochi mesi, tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998, che sconvolsero il Paese. Perché il Liguria e più in generale nel basso Piemonte, si capì che era entrato in azione un killer seriale. Tra le prime vittime ci furono delle prostitute ma poi la scia di sangue si allargò inspiegabilmente a bordo dei treni, seminando il panico. Perché a morire senza un perché (non ce n'è mai uno in realtà tale da sopportare e giustificare un omicidio) fu una baby-sitter e un'infermiera. A pochi giorni dall'ultimo efferato delitto, il killer delle prostitute o il mostro del treno, come fu soprannominato, venne arrestato. Si chiamava Donato Bilancia e a ricondurci oggi sulle tracce di quei delitti, di come furono compiuti e di come si arrivò alla svolta, è il colonnello Giampietro Lago, a capo del Ris di Parma.
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Sembrava essere stato un agguato di ‘ndrangheta: sette colpi esplosi da due pistole che la sera del 15 dicembre 2015 ferirono a morte nella piccola località di Longobardi, nel Vibonese Francesco Fiorillo, un uomo che però non era “affiliato” a nessuna famiglia. Fiorillo spacciava droga di fronte al liceo classico di Vibo Valentia ma era solito anche irretire minorenni. Ed è qui che si annida il movente di un brutale omicidio. A ripercorrere quel caso, che fu in parte risolto anche grazie ad un guanto di lattice trovato sulla scena del crimine, è il dottor Gianni Albano, capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia
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Quartiere di Torpignattara, in via Alò Giovannoli ancora oggi qualcuno ricorda quel bagno di sangue, un duplice omicidio tra i più crudeli avvenuti nella Capitale perché ad essere ammazzati, durante una rapina, furono un commerciante cinese Zhou Zeng e sua figlia Joy di appena nove mesi. Morirono sul colpo dopo che uno dei rapinatori, estratta una pistola per intimidire e spaventare, sparò ferendoli a morte. La mattanza di Torpignattara fu chiamata così. A poche ore dal delitto si ipotizzò di tutto, addirittura che dietro questa rapina ci fosse la mafia cinese considerata la nazionalità delle vittime e anche il quartiere dove si consumò il duplice omicidio. Ma nulla di tutto questo: si trattò di una rapina finita in tragedia. A ripercorrerla oggi è il tenente colonnello Giampaolo Iuliano, a capo della Sezione "Impronte" del Ris dei carabinieri di Roma. A essere ripercorsa tutta l'attività investigativa che tramite un'intuizione e l'analisi di alcune tracce di sangue portò ad identificare gli artefici.
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Era un ferroviere in pensione, Antonio Schiesaro, trovato seminudo e riverso sul letto del suo appartamento a Verona il pomeriggio del 29 maggio 2001. L'uomo era stato ucciso diverse ore prima con delle forbici trovate poi nel bagno dentro una bacinella con acqua e candeggina ma per individuare il suo assassino ci vollero vent'anni. Perché Schiesaro fu ucciso? Nel 2001 avrebbe dovuto compiere 70 anni, non era sposato né aveva figli. A riempire la sua vita erano degli incontri occasionali con uomini a cui offriva oltre al denaro, anche vitto e alloggio, conosciuti nei giardini di fronte alla stazione. A dare l'allarme all'epoca fu la collaboratrice domestica di Schiesaro che bussando senza ricevere risposta, quel pomeriggio, allertò le forze dell'ordine. Le indagini furono condotte dalla Squadra Mobile di Verona che riuscì a rintracciare l'assassino dopo vent'anni grazie anche all'istituzione della banca dati del Dna e all'evoluzione delle tecniche di analisi e di verifica della polizia Scientifica. Oggi a ripercorrere quel brutale omicidio è il dottor Massimo Sacco, dirigente della Squadra Mobile di Verona.
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Maggio 2017, periferia di Bari: in un vecchio edificio un gruppo di ragazzi scopre uno scheletro, a chi appartiene e da quanto è lì, nascosto in una sorta di bara costruita con legno e plastica? A indagare è la Squadra Mobile di Bari che arriverà a dire come quel corpo appartiene a una donna polacca, Margherita Zlezak, classe 1962, ammazzata di botte dal suo compagno, Ignazio Piumelli, attualmente sotto processo con l'accusa di omicidio. Per risalire però all'identità della vittima il lavoro fu complesso dal momento che Margherita, quando ancora era in vita, fu foto-segnalata con tre diverse identità. A mettere ordine sulle "tracce" di quel delitto, compiutosi nel 2012 e scoperto cinque anni più tardi, è oggi il dottor Filippo Portoghese, capo della Squadra Mobile di Bari.
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E' la mattina del 21 marzo 2021 e in via Barbaroux 35 vengono esplosi in successione quattro colpi di pistola. Accasciato sotto il portone di casa, c'è Alberto Musy, la vittima: l'uomo è un consigliere comunale, un avvocato, un docente universitario. Personalità in vista a Torino. Quella mattina Musy aveva da poco accompagnato le figlie a scuola e, come accerteranno gli investigatori, nella sua vita non c'erano "macchie" od "ombre" che potessero spiegare quell'esecuzione. Eppure Musy è stato colpito a distanza ravvicinata da diversi colpi di pistola. Morirà alcuni mesi dopo senza poter dire nulla. Ad ammazzarlo un uomo con il volto travisato da un casco integrale nero con una scritta bianca sul retro. Perché lo ha fatto? A seguire il caso, la Squadra Mobile di Torino che pezzo dopo pezzo, senza avere l'arma "fumante" o una confessione o una testimonianza schiacciante, rimetterà comunque in fila tutti i dettagli dell'omicidio arrivando anche a dare un'identità all'uomo con il casco e a spiegare il movente. A ripercorrere i dettagli di quell'indagine, il dottor Luigi Mitola, capo della Squadra Mobile di Torino e all'epoca dei fatti dirigente della sezione Omicidi.
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E' il 2013 quando ad Oslo si consuma un terribile delitto: un cittadino afghano Noori Ahamad taglia la gola alla propria moglie, di soli 17 anni, poi fugge in giro per mezza Europa con la figlioletta di due anni. Dalla Norvegia a Roma, l'uomo viene rintracciato dalla polizia a Tor Pignattara, nei pressi di un internet point. A tradirlo sono state le tracce che l'uomo ha lasciato provando a contattare amici e parenti durante la fuga. E' infatti grazie alle "connessioni" e agli indirizzi Ip che gli agenti della terza divisione del servizio centrale della polizia postale e delle comunicazioni individuano l'uomo. Il racconto del dirigente, Ivano Gabrielli.
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Era il settembre del 2018 quando Carlo Martelli si sveglia nel cuore della notte perché sente dei rumori in casa. Crede sia la moglie, che dorme in un’altra stanza e che forse si è alzata per bere o andare in bagno ma invece scopre che nella loro villetta è entrata una banda di rapinatori. Sette uomini tutti giovanissimi che lo terranno in ostaggio per due ore, picchiandoli ferocemente. Cercavano una cassaforte ma in casa non ce ne erano. Non contenti i malviventi taglieranno perfino il lobo di un orecchio alla signora Martelli. Chi condusse le indagini, repertò gli elementi, le tracce trovate in casa, parlò di una rapina che superava Arancia Meccanica. Con Daniela Scimmi, biologa della Polizia Scientifica torniamo a quel settembre e a tutti i dettagli che portarono alla condanna dei rapinatori.
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Sedici anni fa un imprenditore agricolo, Giovanni Pinna, fu sequestrato in provincia di Sassari, dopo una prima richiesta di riscatto arrivata alla famiglia la sera stessa del rapimento per mesi calò il silenzio. A tal punto da ipotizzare che Pinna fosse stato ucciso. Poi la svolta, tramite un messaggio scritto sulla prima pagina dell'Unione Sarda e indirizzato alla famiglia. Ma era stato proprio Pinna a scriverlo? Le analisi grafologiche della polizia di Stato chiarirono la paternità di quella frase e di lì a poco arrivò dopo mesi di calvario l'imprenditore riuscì a tornare a casa
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E' il pomeriggio del 19 luglio 1992 quando circa 90 chili di esplosivo vengono azionati a Palermo, in via D'Amelio, nell'attentato in cui perse la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Dov'era la bomba? Esisteva davvero la Fiat 126? Come fu azionato l'ordigno? Per anni le fasi dell'attentato sono state al centro di innumerevoli riflessioni. Oggi Paolo Egidi, responsabile dell'area residui delle esplosioni della polizia scientifica, spiega come andò. Come fu ricostruita, da un punto di vista tecnico, la cornice dell'attentato che sconvolse il Paese.
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È il 1997 quando dalla Cappella del Guarini nel Duomo di Torino divampa un incendio che mette a rischio la Sindone, il lenzuolo che secondo la tradizione avvolse il corpo di Cristo. Fu un rogo devastante a pochi mesi di distanza da quello che distrusse la Fenice di Venezia. Miracolosamente anche grazie ad uno spostamento della Sindone la reliquia fu tratta in salvo e non subì danni ma cosa generò quel rogo? All'inizio si parlò di un attacco terroristico ma la realtà fu un'altra, più semplice. E a raccontarla oggi è la dottoressa Antonietta Lombardozzi, primo dirigente tecnico della polizia di stato direttore della terza divisione della polizia scientifica, responsabile di tutta la parte di accertamenti forensi che hanno come argomento la chimica e la biologia sia a livello centrale che territoriale. All'epoca dei fatti la dottoressa Lombardozzi era una giovane funzionaria addetto alla sezione che si occupa di incendi ed esplosivi ed era entrata in polizia da appena 4 anni. Fu svegliata, la mattina seguente al rogo, dal suo superiore. Partì da Roma e arrivò a Torino: doveva restare pochi giorni che divennero poi tre mesi. Di quelle fasi e di quell'indagine, che portarono poi alla condanna di 4 persone, ricorda tutto, compresa la solidarietà dei torinesi che per giorni rimasero lì in piazza San Giovanni.
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Il prossimo 3 febbraio saranno trascorsi 24 anni dal disastro del Cermis non lontano da Cavalese quando una cabina precipitò dopo che un aereo statunitense, volando a una quota inferiore rispetto a quella consentita, tranciò i cavi dell'impianto sciistico di risalita. A morire sul colpo furono 20 persone, compreso il macchinista. Fortunatamente non c'erano bambini o minori a bordo ma le operazioni di recupero e di identificazione delle vittime furono molto complesse. Ci vollero infatti tre giorni per dare a ognuno di quei corpi un nome e un cognome e oggi Dino Mario Tancredi, dirigente della sezione di Medicina legale e psicologia applicata alla criminalistica della polizia scientifica ricorda quella tragedia e il lavoro svolto al cimitero di Trento.
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