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Mentre da Mar-a-Lago la prossima amministrazione sforna nomine di peso sugli esteri e sulla sicurezza nazionale e s’inventa un dipartimento ad hoc per Elon Musk, il primo dossier su cui Donald Trump prova già a mettere le mani è la fine della guerra in Ucraina. Ben poco si conosce del suo piano di pace, ma il negoziato per un cessate il fuoco durevole non coinciderà con la “pace giusta” che Kiev si auspica. Di certo le trattative saranno lunghe e complicate: chi garantirà militarmente per l’Ucraina se Trump vuole riportare i soldati americani a casa e i governi europei non hanno difese adeguate nemmeno per proteggere i propri territori? Al Cremlino Putin attende le proposte di Washington con sentimenti contrastanti: a Mosca il timore è che se con un cessate il fuoco si distendono i rapporti con l’Occidente, Pechino potrebbe non prenderla molto bene.
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Il prossimo presidente americano avrà metà America contro e non riuscirà a riportarla all’unità. La polarizzazione fra le anime degli Stati Uniti (che non è solo politica fra democratici e repubblicani) riflette concezioni contrapposte dell’American way of life che si disprezzano fra loro. Questo malessere in America dura da anni ed è, fra le altre cose, figlio del ruolo di egemone che gli USA hanno assunto da più di 30 anni – con la fatica, gli errori, l’ideologia e le sbagliate convinzioni che hanno accompagnato la sua missione universalistica. Disfunzionalità che oggi limitano la formulazione di una strategia americana coerente nei dossier di politica estera, un’impasse che diventa inaffidabilità per gli alleati e i partner e opportunità per i rivali che insidiano il primato americano nei suoi punti più deboli.
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Trump stravince il voto popolare intercettando la rabbia e le paure della classe media statunitense. Quella che adesso gli chiede di salvare il sogno americano da un declino percepito come inesorabile. Il realismo del presidente neo-eletto dovrà però ricucire le ferite di un’America spaccata che chiede benessere, protezione e sicurezza, mentre fuori il mondo impazza e tende a trascinare gli Stati Uniti in un vortice più eccezionale di loro. Ma può Trump vincere le sfide interne ed esterne che lo attendono, restando fedele alla promessa di far tornare l’America grande? E come?
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A Roma le redazioni dei giornali, le tv e i palazzi del potere sono in fermento. Tutti aspettano i risultati del voto europeo per capire quale testa salterà e quali saranno le nuove nomine. In pochi si chiedono se cambierà davvero qualcosa per il ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo. Anche perché a leggere i programmi elettorali, le idee sembrano scarse e confuse. Se c’è una cosa però che non cambierà è la base fondamentale che dovrebbe essere all’origine di qualsiasi strategia italiana: il Mar Mediterraneo. Conteso fra russi, cinesi e non solo. Abbiamo perso anche il Mare Nostrum?
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Nel momento più fragile per il potere americano, ovvero a pochi giorni dalle elezioni presidenziali, si moltiplicano i tentativi di interferenze. Alcune sono interne, come la fuga di notizie di documenti top secret del Pentagono (difficilmente voluta da Washington) sui piani di attacco israeliano all’Iran che mostrano un apparato statale permeabile a spie, hacker o potenze ostili. Altre sono esterne e di più ampio respiro, come il summit dei BRICS in corso a Kazan, in Russia. Qui Mosca e Pechino provano a convincere anche paesi alleati o amici di Washington che il sistema internazionale guidato dagli Stati Uniti sta fallendo e che, soprattutto, va eroso, a partire dalla riduzione della dipendenza dal dollaro. E talvolta ci riescono pure.
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A un anno dal 7 ottobre, la guerra per l’esistenza di Israele ha tanti volti, tutti reali e tutti contraddittori. Per lo Stato ebraico è ancora una guerra difensiva ed esistenziale che secondo il premier israeliano Netanyahu è un po’ la stessa cosa (“dalle nostre parti, se non ti puoi difendere non puoi esistere” ha detto all’Onu). Nel concreto, però, i piani militari prevedono offensive a sud (Gaza), a nord (Libano) e a est (Cisgiordania) per ampliare i confini di Israele ed eliminare l’accerchiamento di attori e milizie ostili – Hamas, Hezbollah, Houthi – parte di quell’Asse della Resistenza costruito dall’Iran negli ultimi 40 anni. È una scommessa pericolosa. Certo del sostegno degli Stati Uniti, Israele rischia di precipitare in una guerra senza fine contro la Repubblica Islamica, potenza regionale sempre più vicina a Russia e Cina. E senza avere in mente come fare la pace.
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La NATO com’è oggi non basta più. 75 anni fa era nata per “tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto” secondo le parole di Lord Ismay, primo Segretario Generale. Ma oggi gli Stati Uniti pensano a espandere la difesa comune agli alleati dell’Indopacifico per bloccare la Cina. Mentre i paesi europei vedono allontanarsi la copertura americana senza essere pronti a proteggersi da soli. La soluzione, allora, più che l’allargamento – col rischio di quinte colonne interne (vedi l’Ungheria di Orbán che si defila dall’aiuto all’Ucraina) – potrebbe essere la ripartizione delle aree di competenza nel contenimento della massa euroasiatica, riorientando il futuro dell’Alleanza verso i nostri interessi.
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Da studentessa in Sorbona ho visto sorgere il sogno macroniano. Oggi assistiamo al tramonto della sua formula centrista. La Francia è un paese sempre più polarizzato fra estrema destra ed estrema sinistra e il rischio di scontri e proteste di piazza è alto. Per due vie opposte, la crisi sociale ed economica è entrata nelle istituzioni e le sta conducendo allo stallo. Con un parlamento appeso e un presidente indebolito, considerato voce arrogante di quella élite non in contatto con la gente comune. Cittadini che si sentono declassati, sfiduciati, e che in parte temono un attacco alla propria identità nazionale. E quando lo Stato è debole, il protagonismo internazionale, la “grandeur” francese soffre.
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Il nuovo volto dell’Unione Europea non verrà deciso questi giorni a Bruxelles. Anche perché se tradizionalmente politici e funzionari sono ben capaci di giocare al risiko dei nomi per la prossima Commissione, non lo sono affatto alla definizione di una strategia europea. Ma cos’è nel nostro interesse? Gli Stati Uniti, nostro principale alleato, pare lo sappiano bene: per la prima volta ci vogliono più autonomi, armati e pronti a difenderci da soli. E pure ostili a Russia e Cina. Due potenze che con la guerra in Ucraina, la penetrazione nel mercato europeo e l’intrattenimento di legami speciali con singoli Stati membri, invece, attentano alla coesione interna perché certi che un interesse comune europeo, in realtà, non potrà mai esistere. Â
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Nei rapporti fra potenze esiste un canale di dialogo noto come «diplomazia della violenza». Non è esattamente quello che sta avvenendo fra i tre grandi della Terra in questi giorni, ma quasi. Le dimostrazioni sulla disponibilità all’uso della forza sono aumentate. È successo ad esempio con l’attracco di un gruppo navale russo, incluso un sottomarino a propulsione nucleare, a Cuba, cortile di casa e storico tallone d’Achille degli americani perché fuori dalla sfera di influenza a stelle e strisce. Russi e cinesi si sentono insidiati da Washington rispettivamente in Ucraina e a Taiwan, spazi che Mosca e Pechino considerano casa loro. Presentandosi a Cuba - i primi con navi da guerra e i secondi, forse, con spie - restituiscono le attenzioni ricevute.
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Jons Stoltenberg non decide niente dentro la Nato, gli americani sì. E a Washington di quel che ha detto il Segretario NATO se ne sta discutendo: è ora di permettere agli ucraini di attaccare obiettivi militari in Russia anche con le nostre armi? Finora è stata una linea rossa dell’amministrazione Biden, ma quella in Ucraina è la guerra delle linee rosse abbattute (impazzite?). Nelle ultime ore, poi, dietro ai timori di un’escalation inevitabile, dello scontro diretto fra NATO e Russia, molti cominciano a discutere di piani di pace, di negoziati. Qualcosa che fa meno rumore, ma che serve di più. Putin con una proposta arrivata attraverso fonti della Reuters (e non per canali diplomatici, così da poterla poi smentire ufficialmente), Pechino con un piano concordato col Brasile, Zelensky col prossimo summit sulla pace in Svizzera. Il problema è che tutti vogliono finire questa guerra alle proprie condizioni.
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Qualche giorno fa ho incontrato Bergoglio. Per la prima volta, il Capo della Chiesa Cattolica ha deciso di presenziare all’Arena di Pace storicamente organizzata a Verona con centinaia di movimenti popolari e oltre 12 mila persone. E a me è stato chiesto di presentare l’evento. Non è un caso né una circostanza che Francesco decida adesso di esporsi apertamente a sostegno della diplomazia e del negoziato contro l’idea delle guerre inevitabili. È la strategia del suo pontificato ai tempi della “terza guerra mondiale a pezzi”, espressione da lui coniata nel 2014. Una visione, la sua, che allontana il pontefice da quella di “Cappellano dell’Occidente”, intestazione che ha rifiutato categoricamente imprimendo al futuro della Chiesa una svolta nuova. Al prezzo di venire accusato di essere filorusso, antiamericano e pure filocinese. Cosa c’è di vero?
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Nell’ultimo anno quando Joe Biden e Xi Jinping dialogano dal vivo o al telefono, parlano sempre di Fentanyl. Un oppioide sintetico, piaga numero uno della società americana (uccide 200-300 americani per overdose al giorno), sbarcato anche in Europa e, come dimostrano gli ultimi casi di cronaca, anche da noi in Italia. I cosiddetti “precursori chimici”, i componenti, provengono tutti in gran parte dalla Cina. Lo sanno bene i cartelli del narcotraffico messicano che - è notizia recente - per anni hanno imparato dai produttori cinesi come sintetizzare illegalmente il farmaco in Messico che poi contrabbandano in Usa dal confine sud. Ma c’è chi pensa che Pechino voglia ora cambiare passo e usare la lotta comune al fentanyl per trovare un terreno comune con Washington e abbassare la conflittualità, almeno per ora. Per altri, invece, la crisi resta un potente strumento di destabilizzazione della società americana, tutto in mano al suo nemico principale.
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Venti di guerra sempre più forti soffiano sul Vecchio Continente, ricostruito da quasi 80 anni per occuparsi solo di pace e benessere. In un giorno di festa in Europa e in Russia come il 9 maggio, e a un mese dalle elezioni per il Parlamento europeo incentrate sul riarmo dei popoli, è possibile immaginare una coesistenza fra Occidente e Mondo Russo? Oppure, stante le difficili prospettive del fronte ucraino, anche una tregua non potrebbe che rallentare uno scontro divenuto oramai inevitabile? L’Europa, lo sappiamo, non è più il teatro prioritario per gli americani. Ma in caso di necessità, sarebbero in grado di proteggerci? E la Cina vuole davvero la pace in Ucraina o da questi oltre due anni di conflitto si è rafforzata più dei suoi amici e rivali?
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Silvio Berlusconi è stato il più famoso politico italiano di sempre. Ma prima di essere un politico è stato un imprenditore e dirigente di aziende, seguito da vicino da Bloomberg, sul suo terminale. Questa puntata parla della sua successione politica e imprenditoriale: due eventi sorprendentemente ordinate e organizzate per un uomo dalla vita poliedrica e imprevedibile.
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La storia dell'Italia è anche la storia delle aziende e delle dinastie del capitalismo industriale italiano: storie di finanza, di industria e di politica che ci riguardano molto da vicino perché determinano il futuro del nostro paese e la dote che lasceremo in mano ai nostri figli. Vi sveleremo il “dietro le quinte” delle successioni che hanno fatto e faranno la storia dell’Italia, attraverso un software un po’ particolare, pieno di dati e che ha solo due colori, l’arancione e il nero: il terminale Bloomberg.
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